A 12 anni ha iniziato a disegnare scarpe. Ovunque. Anche sui banchi di scuola.
Oggi Sara Di Battista è una fashion designer che porta avanti con passione e grande entusiasmo l’idea di “moda sostenibile”.
E la trasmette agli studenti dell’Università Europea del Design nelle lezioni che tiene nell’istituto di Alta Formazione.
Ti sei formata nella scuola di Sergio Rossi, il re delle calzature, per poi lavorare per tanti famosi brand. E tutto è partito dai tuoi disegni.
“Dicevo sempre che, attraverso i miei disegni, creavo le storie. Tuttora creo storie.
Ho avuto diverse esperienze professionali che mi hanno permesso di conoscere e vivere le mille sfaccettature del settore moda.
Ad un tratto della mia esperienza lavorativa qualcosa è cambiato.
Arrivare a ricoprire ruoli di forte responsabilità mi ha permesso di accrescere le mie competenze, ma allo stesso tempo mi ha fatto comprendere molte cose. Ed è così che mi resi conto che non c’era più divertimento. Insomma, il mio lavoro era diventato “lavoro”.
Ho sentito la necessità di fermarmi e chiedermi in che direzione volevo andare, ascoltarmi, per comprendere cosa era accaduto e perché avevo perso la passione per il mio lavoro.”
È nata in quel momento l’idea di approfondire il tema della sostenibilità, di cui stai parlando ai Fashion Designer della UED?
“SÌ, mi sono chiesta che valore apporta il mio operato all’interno della società. Chi paga il prezzo del ‘frenetismo’ del sistema moda?
Ho iniziato a fare ricerche sul tema e ho visto che in Italia non c’era nessun corso di formazione attinente.
Ho deciso allora di seguire il percorso formativo online proposto dal London Fashion Institute.
Poi a Milano ho trovato un corso della Fondazione Gianfranco Ferrè.
Lì ho scoperto che c’erano altre persone che la pensavano come me.
Poi è nata l’idea di perseguire un progetto personale.”
Cosa ti ha spinto a prenderti una pausa dagli incalzanti ritmi del settore moda?
“La mia idea è “fare moda, facendola bene e facendo del bene”.
Bisogna educare le persone a comprendere il valore del bello, all’interno del quale c’è il bene.
Trovo assurdo che nella moda ci siamo trovati a parlare di bellezza quando il sistema non ha nulla di bello.
Il mio progetto nasce come riscatto verso un settore che ha poco rispetto degli addetti. Non voglio fare di tutta un’erba un fascio, ma c’è molta contraddizione. I creativi spesso sono accomunati da problemi comuni che portano allo sconforto e frustrazione. Non c’è rispetto verso la persona definita creativa. Mi sono resa conto che il settore moda è un mondo nel quale sensibile equivale a dire fragile e nel quale non esiste il concetto di etica.”
Il periodo del lockdown ha segnato una svolta nella tua attività lavorativa?
“Sì. Mi sono fermata a capire quello che volevo.
Ho sempre voluto approfondire degli aspetti più manageriali legati al mio lavoro e così ho colto l’occasione per tornare sui libri. Ed è lì che ho imparato che la natura per noi è un modello al quale fare riferimento.
Abbiamo la possibilità di trasformare il contesto legato alla moda creando un nuovo linguaggio.
Abbiamo la possibilità di associare alla parola sostenibilità la parola estetica. Ma per fare questo ci vuole una squadra.
È inutile fare un prodotto se le persone non hanno un certo tipo di conoscenza, se i processi non sono efficienti e se l’azienda non ha ben chiaro il suo obiettivo. Con questa consapevolezza oggi supporto le imprese a integrare la sostenibilità nel loro modo di lavorare e a creare dei prodotti più responsabili.
Ho tradotto il complesso linguaggio accademico, legato alla misurazione di impatti, in uno più semplice, adatto alle persone come me.”
Questo è il concetto che è alla base del seminario sul design nella sostenibilità che stai portando avanti all’Università Europea del Design?
“Sì. Spiego ai ragazzi cos’è il ciclo di vita di un prodotto e la responsabilità che il progettista ha all’interno dello sviluppo in termini ambientali e sociali.
Siamo tutti responsabili. Se non prendiamo atto di questo non miglioriamo il sistema.
Dovremo generare un valore che non è soltanto economico ma che è condiviso, perché a caduta porta benessere sugli altri.
Bisogna iniziare a pensare ad un prodotto che sia funzionale ma che faccia anche bene all’ambiente.”
Qual è la reazione degli studenti di fronte a questi differenti modi di interpretare il linguaggio e l’obiettivo del settore moda?
“I ragazzi si rendono conto che è un processo complesso. Ma in realtà dietro la complessità c’è un’opportunità. Abbiamo la possibilità di sperimentare pensando che le cose possono essere fatte in modo diverso. I sistemi aziendali attuali sono vecchi e poco funzionali al concetto di sviluppo sostenibile. Non smetterò mai di dire che il design è forma, funzione e senso di responsabilità!
Oggi è il momento più adatto per riscrivere le regole.”
Articolo di Emanuela Costantini