Dare una seconda vita ai tessuti, rompere gli schemi che frenano la creatività, fare della moda una forma di comunicazione che veicoli valori, scelte etiche, creatività. E che faccia qualcosa di concreto per realizzare l’ecosostenibilità di cui tanto si parla ma che spesso non si traduce in reali azioni concrete volte a ridurre l’imponente inquinamento prodotto dal Fashion System.
Per Simone Botte, Fashion Designer e fondatore del brand Simon Cracker, primo ospite di Glamour [il ciclo di incontro promosso dal dipartimento di Fashion Design dell’Università Europea del Design di Pescara] ciò che è destinato a diventare un rifiuto, come gli scarti di tessuto, diventa una preziosa risorsa per creare capi di abbigliamenti unici.
“Ho fondato il brand Simon Cracker nel 2010. La mia idea inizialmente non era quella di fare un brand upcycling, perché non erano parole che giravano in quegli anni e l’ecosostenibilità non rappresentava ancora il trend attuale. Parlo di trend perché ci sono brand che fanno un pizzico di sostenibilità non perché ci credono davvero, ma perché devono farlo. C’è differenza tra voler fare una cosa e doverla fare.
Quando ho iniziato a creare capi di abbigliamento, non potevo permettermi di comprare materiali nuovi. Quindi, quando sono stato scelto nella sezione Who’s Next per presentare la mia collezione a Parigi al palazzo Pier Cardin, sono andato a chiedere nelle aziende cosa buttavano via: capi difettosi, materiali che scartavano per un motivo. Quel motivo io lo trasformavo nella particolarità del pezzo. Se c’era una macchia, ne facevo altre e diventava il pattern del tessuto.
Avevo una modellista, una sarta e facevo realizzare delle collezioni che non sembravano upcycling.
Avevo paura che questo potesse rappresentare un ostacolo.
Dopo un anno trascorso a Londra, nel 2010 sono tornato in Italia è ho fondato il brand Simon Cracker. A Londra tutti mi chiamavano Simon e dato che avevo intenzione di costruire qualcosa distruggendolo e dandogli una nuova vita ho pensato al nome Cracker.
Inizialmente le mie collezioni erano prevalentemente bon ton e presentavano solo pochi tratti punk. Nessuno sapeva che utilizzavo tessuti di scarto. Poi ho incontrato Sara Maino [creative director e talent scout] che mi ha fatto notare che non dicevo la parte più interessante del mio lavoro. In quel momento ho realizzato che non stavo esprimendo veramente ciò che volevo.
Ho preso dei fondi di magazzino di alcune aziende di confezione e ho iniziato a smontare e a rimontare: avevo finalmente fatto la collezione che rappresentava la mia idea di moda.
Liberandomi dagli schemi sartoriali sono riuscito a dare sfogo alla mia creatività. Ed è in quel momento che hanno iniziato a notarmi.”
Quella che proponevi era un’idea diversa da ciò che si aspettava il mercato?
“Sì, perché ho deciso di non affidare la realizzazione dei capi ad una sarta, che i vestiti li sa fare bene, e di sporcare i tessuti non più in maniera regolare ma in modo istintivo, inserendo graffiti e scritte. E’ stato un modo di creare dei manifesti che tutti potessero vedere. E, dal momento che li indossavano, diventavano manifesti vivi.”
Un manifesto di protesta che vuole portare l’attenzione su qualcosa in particolare?
“Ogni collezione ha un manifesto diverso e ha sempre avuto un tema. Quando si è unito a me Filippo Biraghi, brand coordinator del brand Simon Cracker, ci siamo accorti che c’erano tante cose che non andavano all’interno del sistema moda. Per questo ci siamo proposti di sfruttare ogni show, ogni sfilata per dire qualcosa, per spiegare alla gente le difficoltà che incontriamo nel fashion system, per provare a cambiare qualcosa. Tanti della nuova generazione la pensano come noi.
Siamo tutti in difficoltà ma siamo abituati a sorridere per tranquillizzare gli altri.”
In che direzione va la vostra protesta?
“Contro il Fast Fashion, ma anche contro il sistema. Si parla tanto di ecosostenibilità nella moda, ma poi sono in pochi a realizzarla veramente. E poi non siamo d’accordo con l’idea di perfezione proposta sulle passerelle. Nelle nostre sfilate a indossare i nostri capi sono i nostri amici, persone normali che scelgono i nostri capi anche nella vita di tutti i giorni e che perciò riescono a interpretare meglio la nostra idea di moda. Per noi è importante conoscere la storia di ogni modello. E scegliamo quelli che combattono contro qualcosa.
Che senso ha parlare di perfezione? In ogni cultura l’idea della perfezione del corpo è diversa. Per noi i capi devono essere meno cool e più Cracker.”
I capi che sfilano in passerella non sono quelli che acquistiamo per indossarli quotidianamente.
“No. Questo è un altro punto che affronteremo nella prossima collezione. Ultimamente c’è chi fa i capi per la sfilata, che non vanno neanche in produzione, solo per far parlare di sé. Significa che molti fanno solo prodotto, non c’è più la magia della sfilata.
L’ideale è un equilibrio tra le due cose. Mi è sempre sembrato strano che il cliente non possa trovare nello showroom il capo che ha visto alla sfilata. Bisognerebbe dare la possibilità di farli acquistare a chi ne fa richiesta. Trovare una formula per poterlo fare.
Oggi vai ad una sfilata e di solito sbadigli. Le nostre performance sono diverse da quelle proposte da altri brand. Sono dei veri e propri show. La nuova generazione ha meno paura di dire quello che gli passa per la testa, perché non ha niente da perdere. “
Cosa si può fare per ridurre il crescente inquinamento causato dalla produzione di capi di abbigliamento e scarpe?
“Potremmo fare tanto, ma siamo troppo piccoli. Al contrario i grandi brand fanno danni enormi scegliendo di bruciare i capi o le scarpe per non svalutare il prodotto. E’ roba che ha inquinato nel momento in cui è stata prodotta e inquina quando la distruggono. Penso che ci siano altre soluzioni.”
Ad esempio produrre meno?
“Sì, produrre meno, ma anche comprare meno e scegliere meglio. E’ una scelta che va contro di noi. Ma non ha senso produrre quantità enormi e con le quantità invendute alimentare le montagne di immondizia che ci sono in Africa.”
Cosa ti auguri per il futuro?
“Che si crei un equilibrio tra creatività, prodotto ed ecosostenibilità. Iniziando a parlarne di meno e a fare di più.”
C’è ancora spazio per i fashion designer creativi?
“Sì. Quello che possiamo suggerire ai giovani fashion designer è crederci e avere coraggio.”
Articolo di Emanuela Costantini